PIOMBO E INCHIOSTRO
Milano è sempre stata una location cinematografica. Certo, si sono alternati periodi felici a meno felici, ma la filmografia che riguarda il capoluogo lombardo è davvero sterminata e ricca di titoli insoliti.
Parlando di periodo felici e meno felici Milano ha conosciuto un exploit cinematografico negli anni Settanta, gli anni di piombo e delle contestazioni, della repressione e della strategia della tensione. Ma sono anche gli anni di un fermento culturale rimasto, per certi versi, irripetibile. La componente ideologica e politica permea i dibattiti, la cronaca imbeve il cinema di quel periodo. Sì, nonostante il caos e la tensione palpitanti tra le compagini sociali, l’industria cinematografica è viva in ogni sua manifestazione: dal cinema d’autore al genere.
Il tour meneghino comincia dal Castello Sforzesco dove un giovane Ignazio La Russa arringa la folla invitando a resistere tenacemente all’onda rossa che sta devastando il paese. Esordisce così SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA di Marco Bellocchio. Siamo nel 1972, nel pieno dello scontro tra i Rossi e i Neri. Una lotta per la conquista del potere che non ammette esclusione di colpi e che pretende l’utilizzo di tutti i mezzi possibili, primo fra tutti, la stampa. Al di là del contesto politico e culturale dell’epoca è straordinario come questo film parli al presente. Prendiamo per esempio il luciferino personaggio interpretato da Gian Maria Volontè (a proposito, non si è mai troppo parchi nel ricordare il lavoro di questo attore fenomenale). Il direttore Giancarlo Bizanti sfoggia un cinismo e una freddezza spietate nel gestire il giornale di proprietà di un grosso industriale. Manipola le parole e in questo senso è memorabile la lezione di titolistica data al nuovo e ingenuo collaboratore che crede nella neutralità della stampa. Manipola le persone, dalla polizia alla disperata e innamorata Rita Zigai – Laura Betti, anche in questo caso doverosa menzione – che prima difende e poi accusa il ragazzo indicato come possibile responsabile del caso di omicidio sui cui verte il film. E manipola i fatti nascondendo l’identità del vero assassino. Lo scopo è mettere in cattiva luce il partito avverso indirizzando le attenzioni sul giovane contestatario. Bizanti rivendica il dovere della stampa di schierarsi per difendere i valori della società nella quale si vive.
Percorriamo via Dante, superiamo Cordusio e affacciamoci in piazza Duomo. Lì assistiamo al primo passaggio di consegna di un cartoccio di denaro. La sequenza continua, incalzata dal brano di Luis Bacalov, fino a quando l’ultimo destinatario del pacco scopre che all’interno c’è solo carta. Rocco Musco – un Mario Adorf sudatissimo – riannoda il filo degli intermediari fra botte e torture. Raggruppa in una matassa di corpi i possibili traditori e li elimina in maniera esemplare, facendoli saltare in aria.
Bisogna dirlo senza timore di apparire banali: MILANO CALIBRO 9 di Ferdinando di Leo (1973) parte col botto e non lascia un attimo di respiro per tutta la sua durata. La tensione non si smorza mai, perché la famigerata somma di denaro non è più venuta a galla. L’unico che può saperne qualcosa è il criminale Ugo Piazza, impersonato da Gastone Moschin. Lui era l’ultimo della filiera, ma, guardacaso, è disgraziatamente finito dentro. Una volta uscito di prigione dovrà fare i conti non solo con l’Americano – il boss a cui sono stati sottratti quei denari – ma anche con la polizia che non lo perde d’occhio e con un vecchio amore che non riesce proprio a dimenticare. Ma alla fine Ugo Piazza quei soldi li ha presi davvero?
Film di genere per eccellenza, di un genere ormai defunto e che ha vissuto la sua età dell’oro negli anni Settanta, Milano Calibro 9 rappresenta un modo di fare cinema che stiamo cercando di recuperare, dove il gusto per l’intrattenimento, per la sensazione, non è in contraddizione con tematiche attuali e spinose. Emblematico, in questo caso, lo scontro fra vecchie e nuove generazioni di poliziotti che si consuma in questura rispetto a quali sarebbero i veri nemici da combattere .
Questi piccoli capolavori hanno la capacità di arrivare a tutti. Oltre al sangue e alle pallottole c’è molto di più: la descrizione di un sistema di valori ormai morente e il racconto di una società in perenne conflitto. Fernando di Leo, regista di Milano Calibro 9 e di tanti altri noir all’italiana – così come i grandi autori di genere che segnarono l’epoca – aveva in grande considerazione il suo pubblico. Denuncia sociale e intrattenimento non sono in opposizione, ma possono e devono coesistere.
Appunti di viaggio:
- —> Bizanti è direttore de “Il Giornale”, il quotidiano di Montanelli sarebbe nato solo due anni più tardi.
- —> Il famigerato metodo Boffo, applicato nel 2014 contro l’allora direttore dell’Avvenire, non può che essere figlio di una logica del fango di cui Bizanti è un fulgido e consenziente promotore.